Viviamo in un’epoca e in una società nella quale la fuga, intesa come metodo filosofico, assume i connotati della debolezza e della vigliaccheria. Una società che viaggia di corsa, alienata, che fa del progresso la propria arma vincente, nella quale non c’è tempo per riflettere e per pensare al fatto che probabilmente non siamo adatti a questi ritmi folli che ci vogliono costantemente impegnati nel fare qualcosa. In altre parole, nella nostra società sono scomparse le vie di fuga, ossia un’alternativa di vita a quel modello di vita standardizzato imposto dalla società della frenesia, del conformismo, della globalizzazione. Il concetto di fuga è stato, negli ultimi secoli, colonizzato, reso negativo e peggiorativo, fuggire equivale nell’immaginario collettivo all’abbandono e alla resa. Chi fugge in automatico diventa un vigliacco, uno poco di buono, una persona senza attributi sulla qualche non vale la pena contare. Una pecora nera insomma.
Eppure, reputo che in molti casi nel diritto e nella scelta della fuga vi è un vero e proprio sentimento liberatorio. La fuga infatti, rappresenta a tutti gli effetti una forma di sovversione mentale, di rivoluzione interiore, un voler scoprire cosa c’è laddove ci dicono, da secoli, di non andare. E allo stesso tempo la fuga ha, in sé, qualcosa di nobile, un modo per divincolarsi dalle schiaccianti regole imposte da questa società che va avanti come un rullo compressore e aprirsi verso un orizzonte nuovo, inesplorato, sconosciuto.
Quanto mai opportune emergono nella mia memoria le parole dell’autore Luigi Pirandello dal suo romanzo “Il fu Mattia Pascal”: “Hai mai pensato di andare via e non tornare più? Scappare e far perdere ogni tua traccia, per andare in un posto lontano e ricominciare a vivere, vivere una vita nuova, solo tua, vivere davvero. Ci hai mai pensato?”
È innegabile di come nella sua essenza, la fuga è speranza. Speranza di cosa? Di un mondo diverso, di un’umanità migliore, di un incontro inaspettato, di uno sconvolgimento di abitudini. Nella mente del fuggiasco c’è sempre una direzione, un confine da oltrepassare e quindi un viaggio, un cammino da percorrere. Ma la fuga, a differenza di quello che è il pensiero comune, è altresì un atto coraggioso. Il coraggio della diserzione, del distacco, di salire sul primo treno che passa senza rimpianti. Ed è proprio salendo su quel treno che scopri che nella vita, così come nel mondo, c’è dell’altro, qualcosa che magari non ti hanno mai raccontato ma di cui la tua coscienza ne sentiva un gran bisogno.
E come avresti fatto ad entrare in contatto con questo altro se fossi rimasto nella routine, nel tuo tran-tran quotidiano fatto di corsa, fretta, impegni, scadenze e via dicendo? Ecco il potere liberatorio della fuga, il suo atto nobile, perché ti costringe ad abbandonare quella che è la zona di comfort, all’interno della quale gran parte dell’umanità si dà un gran da fare senza mai andare da nessuna parte. Un po’ come essere in una ruota da criceto. E se ci fossi dentro anche tu, non ti daresti alla fuga?
Ovviamente il senso di queste mie parole non sono un invito a scappare dinanzi alle proprie responsabilità, come atto di qualunquismo o menefreghismo. Tutt’altro, è proprio per il fatto che è la realtà ad essere “una qualunque”, così indifferente nei confronti della vita, che vale la pena prendere in considerazione la fuga. Per fuggire da questo vicolo cieco nel quale l’uomo moderno si è infilato, un vicolo che conduce solo ed esclusivamente al conformismo e all’abitudine.
Vite piatte, offuscate dal progresso, dove vengono negate le nostre intuizioni, le nostre emozioni, dove l’anima è sempre più spenta, disconnessa, e la nostra vita altro non è che una serie di programmi organizzati, controllati, alla ricerca di quella certezza e di quel benessere che rende tutto così piatto, omologato, prevedibile e previsto.
L’uomo consapevole vive quindi in un vero e proprio stato di angoscia esistenziale, sa che nella propria vita non c’è più spazio per la spontaneità, per la creatività, è come stare in una gabbia e l’unica ancora di salvezza che gli resta è proprio la fuga. E così come ogni fuggitivo si deve mettere all’opera, studiando un piano, limando le sbarre e scavando gallerie, anche l’essere tormentato da questo sistema in cui vive, deve studiare e applicare il proprio progetto di fuga, di evasione.
Ma sia chiaro però. Non è un gioco. Si tratta di un fenomeno irreversibile, perché chi fugge non torna più indietro. Non è come una fantasticheria intellettuale che quando finisce poi torna tutto a posto. Avere imparato a fuggire e assaporarne il sapore, con tutti i suoi effetti, cambia profondamente il tuo modo di approcciarti alla vita. Il prezzo da pagare, inizialmente come apprendistato di libertà, consiste nella solitudine. Non soltanto fisica, ma soprattutto mentale, di affinità, in te si disintegrano le teorie, crollano i modelli, si distruggono i facili luoghi comuni e il seme del dubbio pianta le sue radici in profondità. Dopo la fuga, è bene saperlo, niente sarà più come prima. E pertanto ci vuole tanta forza, coraggio e perseveranza per andare incontro a questi effetti collaterali per aver deciso di abbandonare la zona di comfort.
La fuga non è una filosofia di vita, ma un modo per tornare a vivere. Perché quando il peso delle rassegnazioni e delle sconfitte diventa insopportabile, quando la normalità schiaccia le nostre speranze più intime, quando il grigiore della routine allontana ogni nostra intuizione, allora la fuga diventa una rivoluzione interiore, una via solitaria e non violenta, che ti permette di spezzare le catene e di non essere più avvelenato da questa società manipolatrice, riscoprendo quanto di vero e di bello c’è in quell’unica occasione chiamata VITA.
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